martedì, settembre 29

Fronte mare

Siedo con l'anima in mano, fronte mare.
L'onda si riversa su questa inconsistenza un po' sgualcita, messa via di fretta per applicare attenzione alla qutidianità documentaria, alle porte degli uffici dove i commessi hanno faccia di scartoffie, ai fili di telefono che mi tengono annodata a persone che, senza avermi mai stretto la mano, tengono in pugno il mio cuore preoccupato.


Siedo, per un tempo infinito appoggiata ai pensieri che vanno e vengono, con un ritmo frenetico ed esasperante.
Siedo, e cerco nel corpo la via per placare la tempesta, per adeguarla alla tranquilla intensità di questo mare autunnale, che insegue come se potesse riprendersela, la ragazza di vent'anni, che chissà come un giorno mi deve aver lasciato.

Siedo qui, come sulla poltroncina della psicologa, quando arrivo. Il corpo un po' teso, da principio; la morsa della mente sui suoi contenuti. E provo ad far esercitare al mare la stessa leggera pressione che si sente nelle prime parole,di quando io e lei, sedute una di fronte l'altra... "allora che mi racconti"...


Un po' ha funzionato. Nessun vuoto di pensieri, nessuna esaltante scoperta. Solo che quando mi sono levata dalla sabbia raffreddata di vento, con le orecchie intorpidite da quel susssurro costante di brezza e di sale, sembrava che il corpo almeno avesse di nuovo vent'anni. Avesse nessuna frattura a metà strada fra la testa e i piedi.
Avesse un filo teso ed elastico fra sé, e le altre parti di me.

Sto seguendo una via, per ritrovare la strada...

domenica, settembre 20

chi ha paura del burkini 3 (oltre la notizia)


Non facciamone una faccenda troppo politica o troppo religiosa…
Ma,  per favore!
Il padre, non stava tanto bene. Un uomo non ama la propria figlia, se le nega la libertà. Eppure dovremmo considerare che, a parte l’aspetto umano (che ne so io, che tipo era il fidanzato!) della vicenda che ci può indurre a comprendere, anche se non a perdonare (nel senso di non punire), la faccenda è geneticamente politico-religiosa.

La cultura è quella; ed è quella che apparteneva, o appartiene ancora, anche a noi. Non sono sicura che tutte le fuitine si risolvessero con il matrimonio.

È geneticamente politica, come politico è il gesto dell’imam di far vedere la salma di Sanaa a tutti.
Politico, o politico-sociale, è il problema che si pone di organizzare una educazione che permetta di facilitare, se non l’integrazione di tutti, l’accettazione della integrazione dei propri figli.  Recita un vecchio adagio che moglie e buoi dovrebbero essere dei paesi tuoi.. però i figli?  Anche in una famiglia indigena sussistono problemi generazionali, figuriamoci se qualcuno viene da un’altra cultura e paese, e i suoi figli crescono nel nostro. Diamine, ci sarà pure qualche problema. Cosa fare, quindi, è la domanda giusta da porsi. Perché non possiamo lanciarci contro l’immigrazione, che è sempre esistita e sempre esisterà.

Passiamo per la religione. Perché è un religioso che ha fatto da interprete alle parole della madre. La cosa mi fa innanzitutto supporre che anche nell’islam sia previsto il perdono. E questo vale, lo sappiamo, da entrambe le parti. Da parte di dio e da parte dell’uomo. Da parte della madre verso il padre omicida, da parte del padre verso la figlia fuggita per amore (o forse solo… fuggita. La psiche umana è cosa raffinata e di difficile comprensione).
E qui, e non è religione questa?, interviene l’uomo di religione e dice che la famiglia non era praticante.

La questione è sociale, allora. Socio culturale, perlomeno. Spinosa, in ogni caso.
E non mi sento in grado di approfondire troppo, in termini generici.
Mi permetto allora di porre l’accento sull’aspetto del “nel mio piccolo”, anche perché una domanda è sorta fra i commenti e le riflessioni a tema: cosa permette che accada tutto questo?

La colpa di quello che ci accade la possiamo dare solo a noi stessi.

E non facciamone una questione religiosa, perché questo è un fatto insito nell’essere forniti di libero arbitrio.  C'è scritto nel libretto delle istruzioni, almeno quello che hanno dato a me. Solo che è facile dimenticarlo, o forse non leggere perché  evidentemente è scritto piccolo piccolo, come le clausole dei contratti, quelle che poi ti incastrano perché ignorantia legis non excusat.
Si chiamano clausole capestro, e pare che siano diventate illegali... nel senso che è illegale che siano scritte in piccolo. Così forse ora leggeremo un po' meglio, e diventeremo un po'  meno "umani".

Mi spiego: se "errare è umano, dare la colpa agli altri molto di più"(cit.) allora abbiamo la possibilità, rivedendo tale attribuzione, di valicare quel piccolo confine... che ci pone un confine.

Quel piccolo confine che è una barriera all'evoluzione verso una stato più sereno, almeno con noi stessi.  Di essere quindi un po’ più che l’animale (bestia, talvolta) uomo, ma di essere Uomini.

La bestia-uomo trasforma l’amore in odio. L’essere umano ama, ed ha la capacità di concedere la libertà a chi ama.

Ama. E sa accettare l’altro (e talvolta anche il destino, che solo alla lunga riusciamo a capire le lezioni che ci vengono impartite).

Ama. E com-prende l’altro.
Comprende e accetta che in una famiglia di destra/sinistra i figli sviluppino delle idee proprie, di senso opposto. Di senso sghembo. O di buon senso.

Comprende e accetta che le persone che ama possano sbagliare, e che hanno bisogno di tempo per correggersi.
Comprende e accetta che a volte questo non può succedere; allora qualcuno si suicida, non prima di aver sterminato tutti quelli che ha attorno, perché non riesce a vedere alcuna via d’uscita. Uccide i propri figli. La propria moglie. Il marito. Le proprie idee.

D’accordo, l’essere Uomini è molto più di questo. Ma questa è la parte che vedo oggi.


Un benvenuto ai nuovi lettori, a quelli vecchi e a tutti coloro che vorranno partecipare con me a qualche riflessione. Un abbraccio, che significa che vengo verso di te con il cuore, e vengo verso di te senza niente in mano che possa ferirti.

venerdì, settembre 18

chi ha paura del burkini (2)

per tempo

"perdono mio marito. forse ha sbagliato Sanaa"

forse dovrebbero arrestare anche la madre. La perdoniamo (parafrasando), perchè ha altre figlie. E perchè è una che non si integrerà mai, quindi non sa quello che dice o che fa. E perchè tecnicamente non abbiamo ancora la certezza assoluta della colpevolezza del padre.
Ma lei, la madre, segue un precetto, forse, peggiore di quello che De Andrè cantava nel testamento di Tito. Sconfitto, pessimista, magnifico,De Andrè, che cantava allora parte dei sentimenti confusi di oggi.   Dei sentimenti eternamente confusi, perchè non si può averla su con tutti gli arabi, se quattro (quattrocento, quattromila) talebani ci fanno saltare per aria i ragazzi.
D'accordo o meno, è la guerra, e quello del soldato un mestiere antico quanto il mondo. Non l'unico, non il più bello o sicuro. Ma qualcuno lo fa; io ho un amico che ci parte per queste missioni, e lo mettono in conto.
Gli altri, quelli che restano, sono quelli che poi dicono " era un ragazzo così dolce, con un sorriso generoso, ma timido. Non si può morire così, a vent'anni" (cioè vittima di incidente stradale).
Quello che vogliamo dire con queste parole, e che non si può morire. Non io, né molti di noi siamo in grado di comprendere che invece accade, anche se non comprendiamo come e perchè. Perchè non esiste.
Esiste che oggi, ora, sono ancora vivo. La mia missione non compiuta, qualunque essa sia. L'omeostasi dell'universo mi tiene dalla parte visibile della barricata.

Quello che vogliamo dire, è che non si può morire per mano del padre; per mano della figlia; per mano della Rom che bazzica davanti al pronto soccorso e che ti accoltella se non le dai un euro. E i biscotti non li accetta. E ora una delle mie signore non riuscirà a trattenersi da far l'elemosina a quella davanti al supermarket, per paura che le sbatta in testa una fioriera.

Non credo che siano tutti così, e il contraltare lo fanno i protagonisti italianissimi di altre fantastiche vicende della nera di ogni giorno. 
Quello che vorrei dire, è che la violenza non è un marchio di fabbrica. Che la vera tolleranza è continuare ad accettare chi si vuole integrare, rispettandolo.

Senza lasciarsi prevaricare.
L'uomo che ha ucciso Saana sarà giudicato secondo la nostra legge.
Speriamo che la applichino fino in fondo.








mercoledì, settembre 16

Chi ha paura del burkini

… di qualche settimana fa la notizia che i nostri bambini, i bambini italiani figli dei figli dei figli (già, forse la parentela è ormai troppo lontana) di grandi esploratori, navigatori, condottieri, ribelli e chipiùnehapiùnemetta, hanno paura del burkini.
Non si capiva bene se le mamme si lamentassero per una paura effettiva, o perché avevano paura che i loro figli dei figli dei figli di grandi esploratori ecc potessero forse avere paura.
No, ma dico!!!
Mai visto qualcuno che si butta in acqua tutto vestto? In che paese viviamo, se le madri non sono in grado di spiegare ai loro figli che l’amico straniero ha diritto, come noi, di fare il bagno vestito?
Paura? Ma di che cosa? A me fa paura vedere una nuotatrice, italiana turca o visigota, che per ifrangere i record di velocità si mette addosso una pelle di plastica ipertecnologica, che non fa attrito per niente. Embè? Che ha fatto? Sono d’accordo, nuoterebbe comunque più veloce di me. Ma mi fa paura. Allora forse sarebbe meglio vietarle di tuffarsi conciata a quel modo!
Forse sarebbe meglio che i bambini, invece di essere spinti dalle mamme ad avere paura, ed essere strumentalizzati dal razzismo imperante, che diomiscampi, un po’ forse ci fa anche bene ai fini della conservazione degli usi e costumi, per non appiattirsi nella globalizzazione, ma qui mi pare che stiamo esagerando.

(il brano che segue è scritto in tono di voce pesantemente ironico)
No, per strada le donne col burka non le voglio, perché non so se ci sarà davvero una donna, là sotto, o un terrorista.
No, in piscina la donna col burkini non la voglio. Perché a mio figlio fa paura (‘sti bambini fifoni però non ce li hanno fatti sentire stavolta, mentre ce li fanno sentire eccome quando ci devono dire che gelato si mangiano o quanto è simpatica la maestra).
NO. Togliamogli il diritto di iniziare ad integrarsi. (casomai ci volessero provare).
Leviamogli anche quel minimo di libertà che si possono godere nel nostro paese.

Io mi chiedo da che parte stare.
Perché qui, davvero, mi manca un’idea. Ed una ideologia mi va comunque stretta, se posso parafrasare (e checchè se ne possa intendere dalle belle parole che scrivo di solito), i miei amici di sinistra che pensano che io sia piuttosto fascista. O i miei amici di destra, per cui sono piuttosto comunista.
 Mi sento stretta, di qua e di là, ed ho un senso di claustrofobia.
La verità, più che in mezzo, forse sta sopra...

venerdì, settembre 11

il viaggio (spin off)


Il Buddha ha affermato di voler insegnare l’eternità, ma l’eternità è composta di giorni come questo, dunque “la pratica di un giorno” è il principio del satori.
 (Taisen Deshimaru Il vero Zen, ed. SE)
Dormire, svegliarsi sono satori. Ogni istante privo di concentrazione è sprecato: quando si mangia bisogna concentrarsi sull’atto del mangiare, quando si leggono i sutra bisogna concentrarsi sulla lettura dei sutra, quando si dorme bisogna concentrarsi sul sonno. (ibid)
il satori non è una condizione particolare dello spirito, ma il ritorno al suo stato normale (ibid)
Non volevo fare meditazione. Non ero nemmeno concentrata; stavo con la mente confusa nelle mie infelicità, quelle che ancora dovevo riporre, gettare, differenziare, quando improvvisamente un rumore d’acqua sui sassi è entrato nella mia consapevolezza. Non so, nemmeno a pensarci a distanza di tempo, in questa relazione sconnessa d’esistenza per cui ripercorriamo le cose per comprendere, ecco, non so quanto sia durato. So che l’orecchio, gli occhi, i sensi, erano tutti su quel fruscio che aveva la perfezione armonica che solo Natura sa progettare.
Qualcosa che adesso spiego come ‘il fruscio del vento in un bosco di foglie”. Qualcosa che, ovviamente, era solo il rumore del mare sulla ghiaia già lucidata dal sale.
Si può dire, comunque, che per un lungo tempo (forse qualche secondo, un ondata, poi la successiva) sono rimasta immobile in quel fruscio. Perché è quel rumore di vento che non sposta il tronco della quercia. È quel rumore del mare che arrotonda i sassi, senza cambiarne la posizione. È quel rumore che entra nella confusione completa, e accomiata i pensieri, le sensazioni mentali, le emozioni recondite che spuntavano già reintepretate. Le rende assenti di moto.
Poi il mare sale; rolla una terza onda; si scrolla fino al bordo leggero del pareo disteso verso di lui.
Me lo avvicino. Il mare infatuato… frusssccia un'altra onda inseguendoci sulla rena.
Sollevo il pareo.
Al mare sfugge un rombo sordo di disappunto. Si ritira, ammicca sotto la scesa della ghiaia, un po’ irrigidita dall’ultima carezza come un’amata svestita di colpo… e poi s’avventa.
Ora si!  sa di vento. Sa dell’urlo segreto del vulcano, prima che erutti;  sa di estesa tempesta che squarcia prima o poi con il fulmine le colonne di nubi; sa del mare che innalza sulla schiuma la barca al navigante…
Quanto al satori, non so com’era in quel momento. Ma ho fatto appena in tempo a sollevare lo zaino, prima che il mare mi baciasse i piedi, e tornasse a languire nel suo letto.

Il viaggio (seconda parte)


sesto giorno
il mattino si apre sulla scelta d'una nuova meta. La compagna di viaggio lascia a me, come sempre, decidere. E il naturale istinto al comandare, organizzare, fare, si spegne. Scivola nella luce dell'alba, mentre percorro la collina di Enfola cercando i primi raggi di sole.
Dove andare?
L'anima si stropiccia, l'io invoca di vedre tutto. Ma proprio tutto. Che importa, pochi giorni, tanto da vedere... non si sa mai, se si può tornare.
Questo si, è importante.
Ma mi appago, finalmente, lasciando che la gola  si sazi delle meraviglie delle Ghiaie. 
Un mare più silenzioso che a Sansone. Un profumo più elusivo. 
Stormi di pesci che, nell'acqua di cristallo, specchiano il volo dei gabbiani.

Lascio tra i sassi ovali il bisogno di correre altrove.
Torno, il pomeriggio, a godere con altri occhi, tranquilli specchi dei voli rovesciati, lo stesso mare.
No, forse non più lo stesso. Ed io... non più la stessa.



settimo giorno
sono sola, al di sotto delle nuvole. 
Un pescatore scivola nell'acqua con blandi colpi di remo, solo anch'egli sul finire della notte. Un rumore che non arriva, incatenato dalla distanza e dal più netto battere dell'onda sulla roccia.
Ritorna alla mente l'immagine di me, arrampicata sui faraglioni in Algarve, a rischiarmi la vita per una foto a rischiarmi la vita, solo per sentirmi forte d'essere arrivata là.
Oggi lascio che questa parte di me si riposi, non sapendo bene se debba anch'essa sbiadire tra le immagini di questo viaggio.
Non ho bisogno di provare a me stessa quanto sono forte, perchè la forza non la misuro più col rischio. La misuro sulla placidità del rimanere costante. Sui tre minuti d'esercizio, portati fino alla fine.



 Sulla voce, che va e viene accompagnando il mare. 
Il rischio che preferisco adesso, è perdere tutto, per esere se stessi.  
Un perdere la vita conosciuta, ritrovandosi al mattino allo spechcio.

(siamo partite con calma, arrivando a tempo al traghetto. Non fosse che il tempo era... troppo per tempo. Così abiamo atteso all'ombra e smarrito, vedi il destino che ci vuole giocare alle volte, il traghetto giusto, ancorato altrove. Ad un viaggio così mancava giusto un imprevisto, per essere perfetto!)

giorno otto
la compagna del'isola è tornata a casa.
  Lila si siede sulla riva di fronte all'Argentario. La terra di qui è casa, lo spazio di qui, è lo spazio del mio cuore, forse non allargato ma così più grande, ora che è ramazzato da vecchie storie. 
C'è un tempo, questo, per lasciare che le cose si mettano a posto da sole. 
Un tempo per sedersi accanto al mare, ed aspettare...


(vorrei tacere, ma non posso, sull'ultima sera, tra il nono e il decimo giorno mi sono recata alla Feniglia, cosa che sognavo da tempo, e se è  forse sconsigliabile parlar male del campeggio... posso almeno non parlarne bene!
La spiaggia e la pineta sono purtroppo mal tenute  emaltrattate dagli incivili, ma il posto in sé è veramente meraviglioso e merita d'essere visto)

 

  

 

lunedì, settembre 7

il viaggio (prima parte)

Per cominciare, erano anni che non andavo in vacanza con un'amica.
Moto caricate, con un pacifico entusiasmo la mia, e alle stelle l'altra, anche perchè è comunque una cosa "ganza", andare all'Elba con gli scooter. La sua prima volta (dell'amica), per molte cose. La mia prima volta, in molti modi.
Intanto sono partita senza aspettarmi niente, nella valigia, stipati fino all'inverosimile, gli eventi dell'ultimo anno, il dolore, la sofferenza, la gioia anche, di risentirsi vivi, con la vita spezzata in due.
Avevo bisogno di buttare alcune cose, e per affaticarmi meno mi sono avvalsa della raccolta differenziata.

Primo giorno:
il bisogno d'altrui, scivola nel vento, mentre subentra il brivido d'essere in due, in perfetta libertà e senza bisogno. Due, perchè la gioia condivisa si fa doppia, e non metà.
Soli, però, per libera scelta. Per consapevole percezione, che anche nello spartirsi un viaggio, l'emozione resta qualcosa di irraggiungibile a voce.
La prima tappa è una sosta dagli amici, nel golfo di Talamone. Lascio lì la dolcezza del passato. Il desiderio rincorso del ripetersi d'eventi che non appartengono che ad allegre memorie. O tristi. Comunque memorie.

Secondo gorno:
ho preso decisioni notturne, scavando il tempo nel sonno, per il bisogno di ritrovarsi.
Carico sulla moto un sorriso che profuma di aghi di pino, salato e lento, come una condanna. Perchè comunque, non mi può lasciare! Mi lascia, invece, la paura di sentire quello che sento.

L'ardore del viaggio, e il calor del sole sfocano la strada.

Lontano. Sto andando lontano.
Perchè lontano è un posto da cui non si torna.

Dal di là del mare nessuno torna.

Arriva qualcuno di nuovo.

(viaggio da Talamone all'Elba, via Piombino. Il campeggio, scelto perchè volge al sole che muore, si rivela deliziosamente poggiato sulla scogliera di fronte alla penisola di Enfola, da cu prende il nome; è pulito e tranquillo e l'accoglienza è piacevole e simpatica. I proprietari sono Valtellinesi, trapiantati nella Toscana, che già di suo sa accogliere i turisti. Un bel connubio!)

Secondo giorno, sera.
adagiata sugli scogli adunchi, imparo le ossa che mi sporgono dal corpo. Percorro la sensazione della fatica, attendo la discesa nell'acqua come un ritorno al ventre, che mi ripartorisce a terra nuova: come sono, non come credo d'essere.

(unico neo... le due spiaggette sono di sassi, e in una delle due  sono anche piuttosto affilati...)

terzo giorno
Aurora sul molo;  si scalda, il corpo, alle grida rauche dei gabbiani, muovendo in un saluto al sole che ancora non si mostra. Nuvole sparse, spesse e poi di nuovo rarefatte, ombreggiano il ricordo e lacerandosi mostrano nel cielo il mio volto. Come uno specchio d'acqua, solo che in alto!

Percorriamo metà dell'isola, incontrando rocce e nuvole, mare e gabbiani.
Gli uomini, spazzati via dal sano senso di trovarsi, lasciando che per oggi perdano importanza gli altri, e siamo solo noi. Noi stesse.

Ci siamo raccontate due vite, specchiandole una nell'altra. Imparando una dall'altra.
Criticando e accogliendo le rispettive essenze, ma sempre con amore.

(il bagno l'abbiamo fatto nella famosa spiaggia di Fetovaia; vera spiaggia, morbida e chiara; il mare assume qui una sfumatura di movimento, che manca alle altre baie, tranquille come laghi salati)

quarto giorno
l'altra metà dell'isola s'apre nel mattino; al centro una perla sulla cui superfice lucida scivolano le volte che mi sono vista brutta, che mi sono sentita inadeguata; che ho atteso l'attenzione di cui avevo bisogno.
Cerco la bellezza in ciascun posto. Ritrova l'armonia dello scavare me stessa, per amarmi di più e meglio.
Ed amare, di più e meglio, d'ora in poi.
Mi ri-conosco.
Non sicura d'essere perfetta, oggi, senza indulgere troppo mi conento di perdonarmi. quando ce ne sarà bisogno.

quinto giorno
imparo il rumore del mare, sulla ghiaia della spiaggia di Sansone.
Il frusciare sui sassi si trasforma in metafora; ogni sasso una persona, ogni persona un suono di questo andare e venire. Delle mie alte e basse maree. 

 
A bagnarsi in questo mare si smarrisce il contorno dell'acqua e del cielo. Pare di volare, e non c'è più alcuna differenza fra l'esser qui, ed essere in cielo.  Non c'è, di fatto nessun altrove. 

(il pomeriggio Beverly è voluto rimanere sulla spiaggia di Scaglieri, nonostante io non fossi d'accordo. Accaldato -ingolfato- e ammirato -non è ripartito-  è rimasto davanti al mare fino a dopo cena. Ci vuole un po' di pepe, anche in vacanza!)
....continua.... 


"è pericoloso uscire di casa, Frodo..."(Bilbo Baggins)


"ecco, padron Frodo, se farò un altro passo sarò andato più lontano di quanto non abbia mai fatto"

Una cosa del genere, diceva il buon Sam, nel film de Il Signore degli Anelli. Il concetto val più delle parole, e mi si è schiacciato addosso assieme al vento, mentre volavo lungo la variante dell'Aurelia, in direzione Piombino.
Un solo passo, ancora.

E' la condizione in cui ci troviamo la maggior parte della nostra vita, senza rendercene conto. Quell'unico passo che ci porterebbe così lontano da casa;  un passo solo e saremmo nel posto più lontano mai conosciuto. Eppure la paura ci ferma. Il conoscere già il giardino di casa nostra, o credere di conoscerlo (ci fu occasione di dire che nascosto, in qualche posto, c'è il fiore dei sette colori) ci impedisce di varcare il confine tra ciò che crediamo di essere e noi stessi.

Ho creduto per tempo di essere Frodo.  Mi immaginavo portare il fardello dell'anello, mentre sognavo il potere dello stregone, e la leggerezza dell'elfo. D'essere il re celato, il guerriero che si riabilita nella lotta. Il curioso amico o il valoroso ragazzo. Perfino il possente, brontolone, nano!
Leggi e rileggi mi sono trovata in tutti i personaggi, ma mai avrei pensato di essere il fido Sam. Il giardiniere, quello che si occupa delle cose che crescono...  (il mio pollice fra l'altro non è proprio verde!)

Invece, piantata saldamente sulle due ruote, rappresa, col vento che mi si avvinghiava come un amante perduto da tempo aderendo alla mia paura, lavandola con benvenuta violenza... ho sentito la spinta mutare.
Non davanti, ma ovunque... poi dietro e in alto mi sollevava il pensiero, mentre il corpo è rimasto lì, a controllare il mezzo, per raggiungere il fine intuito!

Un solo, piccolo passo.

Oltre la paura.

E poi... nessuno lo sa.

Nello specchio, arrivando all'Elba, nel viso stanco del viaggio, ho ritrovato un amica lasciata da tempo.
I capelli appena spruzati di bianco e la faccia da ragazzina che non avevo dimenticato, solo che non la vestivo più.

Ma se ciascuna scarpa rimane con dentro l'ultimo passo, che a volte si ripete infinito; ciascun vestito ha un ricordo dentro, se mi spoglio ora ho un vestito nuovo.

Davvero padron Frodo, non credo d'essere mai stata così lontano...